Da un lembo delle Venezie, uno sguardo sul mondo:
Giuseppe Barbieri
(1774-1852)
ché, nato appena, la vien salutando co’ primi raggi il sole, e tutta intorno la veste della sua luce».
da Giuseppe Barbieri, Le Veglie tauriliane, Padova 1821.
Le stagioni della cultura fioriscono, come si sa, in vari modi: accade pertanto che, in un medesimo tempo, all’esplodere di vivacissime corolle si accompagni una germinazione forse più modesta, ma al contempo più diffusa e brulicante. Il fervore creativo, allora, sia si concentra nel rilievo dei singoli ingegni, sia affiora dalla trama di contatti, confronti, incroci tessuta da intellettuali di provenienza varia e di varia levatura: ed è da quest’humus, sorprendentemente ricca, che germogliano primavere forse meno vistose rispetto alle fioriture prima accennate, ma comunque significative, se non indispensabili alla definizione di un complessivo panorama della mente e dello spirito.
Territorio propizio a tali fioriture molteplici fu quello veneto nei decenni fra XVIII e XIX secolo. Patria di scrittori quali Cesarotti, Foscolo, Pindemonte (nonché, ad esempio, di Facciolati, Brocchi, Roberti), la terra veneta – per la precisione, Bassano – diede i natali, il 26 dicembre 1774, a Giuseppe Barbieri; egli, da scrittore, avrebbe ricambiato il privilegio di aver visto la luce negli scenari di una natura «gioconda e severa, adorna e incolta, giovane e antica»[1] con il consacrarle gli slanci più vivi delle proprie poetiche fantasie[2].
Svolta la prima formazione a Bassano, Barbieri, uscito con onore dal Seminario di Treviso, perfezionò i suoi studi a Padova; lì prese la decisione di farsi benedettino nella vicina abbazia di Praglia, secolare cenacolo di sapienza. Dopo l’uscita dal chiostro, al quale congiurarono la politica napoleonica, fortemente antiecclesiastica, e la sua salute fragile, Barbieri venne prescelto da Melchiorre Cesarotti (1730-1808) per la cattedra di Filologia greca e latina di Padova; a Cesarotti, noto traduttore dell’Ossian[3], Barbieri era unito dal vincolo di una predilezione reciproca, di una speculare devozione (pari a quella esistente fra un padre e un figlio). La soppressione della cattedra, di poco posteriore al conferimento dell’incarico, non impedì che Barbieri perseverasse nella passione per le lettere e per l’insegnamento: dal 1812 fu Prefetto del Ginnasio nel Cenobio di Santa Giustina; a partire dall’anno successivo resse la cattedra di Diritto naturale presso l’università di Padova.
I contemporanei che di lui hanno lasciato un ricordo ne elogiano la mitezza, la cordiale umanità – nell’adempimento del magistero spirituale e didattico così come negli agoni letterari, inevitabili in qualsiasi epoca – e la forza dell’eloquio, persuasivo grazie alla dolcezza.
Entro la cospicua produzione dell’abate bassanese – le orazioni sacre si intervallano ai sermoni quaresimali, le pagine di grammatica e linguistica si alternano alla critica – gli scritti precipuamente letterari s’impongono per due ragioni: il singolare connubio fra scienza e poesia, testimoniato dall’Epitalamio botanico (1803) e dal poemetto La sala di fisica (1807), e la prevalenza di un genere che si potrebbe denominare descrittivo-campestre. Inaugurato dai poemetti Bassano (1804), Le stagioni (1805) e I Colli Euganei (1806), questo favorito filone tematico si concretizza poi, dopo il ritiro di Barbieri in una tenuta acquistata a Torreglia, nelle epistole in prosa dette Veglie tauriliane.
La scrittura di Barbieri accompagna dunque le tappe della sua esistenza, snodandosi tra i colli Berici e gli Euganei e indugiando ora su Bassano, ora su Praglia, ora su Torreglia; egli, in versi o in prosa, traccia, quasi «pittore a fresco»,[4] le visioni più amate. Idealmente rivale del veronese Ippolito Pindemonte nel «dipingere dolcezze campestri»,[5] a detta dell’ammirato Andrea Cittadella Vigodarzere Barbieri, nelle Veglie tauriliane, soffonde i suoi versi delle medesime, fresche sfumature di cui rilucono i campi rugiadosi.[6] Sincero omaggio rivolto a Torreglia, le epistole di Barbieri non si chiudono nell’idillica introversione di un solitario, in un’esclusiva contemplazione, bensì si aprono al mondo, dialogando sia con i contemporanei a cui sono indirizzate, sia con gli antichi (e interlocutore fondamentale e indimenticabile è Virgilio) la cui memoria balena di continuo, fra le righe, a conferma di un’ininterrotta vicinanza.
Barbieri si spense il 10 novembre del 1852. I suoi resti mortali riposano ora nella Chiesa di San Sabino, a Torreglia. Lì, l’abate è celebrato da un busto e da un’iscrizione commemorativa.
La natura, tutt’intorno, allarga splendente le sue braccia di foglie. Tra i colori, si scorge il cielo.
E non si può non sperare che lo sguardo di Barbieri, proteso, durante la vita terrena, a cogliere gli incanti del paesaggio, ancora si posi, colmo di felicità, lungo la linea di un orizzonte tanto amato.
Francesca Favaro © 2017
Università di Padova[7]
[1] Così si esprime il nobile Andrea Cittadella Vigodarzere nel discorso Per la inaugurazione di un monumento a Giuseppe Barbieri, letto nella Chiesa parrocchiale di Torreglia il 17 ottobre 1869; il discorso fu edito a Padova, presso la tipografia Sacchetto, nel medesimo anno. La citazione è tratta da p. 6.
[2] Fantasie dovute, del resto, proprio alla nascita in quei luoghi, visto che il destino sembra assegnare opportunamente i temperamenti immaginifici alle regioni massimamente «pascolo» di belle invenzioni (ibidem).
[3] La versione italiana dei Canti di Ossian, che Macpherson aveva presentato come l’opera di un bardo gaelico del III secolo d.C., contribuì a diffondere nella penisola l’interesse per atmosfere – cieli del Nord, lande tempestose e spettrali – anticipatorie, per alcuni aspetti, della sensibilità romantica.
[4] Per la inaugurazione di un monumento a Giuseppe Barbieri, letto nella Chiesa parrocchiale di Torreglia il 17 ottobre 1869, cit., p. 7.
[5] Ivi, p. 12.
[6] Ibidem.
[7] Francesca Favaro ha composto appositamente questo profilo per la Parrocchia di Torreglia. Ha curato la riedizione di alcuni scritti di Barbieri e alcuni saggi dedicati allo scrittore, cfr. Barbieri G., «I colli Euganei», «Bassano», «Le Stagioni», a cura di F. Favaro, in Finotti F. (cur.), Melchiorre Cesarotti e le trasformazioni del paesaggio europeo, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste 2010, 170-214; Favaro F., Sui poemetti di Giuseppe Barbieri: cenni introduttivi, in ibidem, 167-169; Ead., Una terra di letteratura: il paesaggio veneto nei poemetti di Giuseppe Barbieri, in ibidem, 100-111.