Giuseppe Barbieri, oratore sacro

L’oratoria dell’abate Giuseppe Barbieri

«Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13)

Leggo, rileggo, sgrano gli occhi. Ha scritto proprio così: «La inferma nostra natura vuol essere corretta sì, non disfatta; e la mortificazione de’ sensi, precetto massimo dell’Evangelio, non è a doversi confondere con la loro distruzione […]». Sono queste le parole che Giuseppe Barbieri, abate bassanese di primo Ottocento, scrive nel VII volume delle sue Orazioni quaresimali e che oggi ci suonano familiari più che mai. Il riferimento biblico che vi è alla base è evidente e richiama alla nostra mente proprio il versetto «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13) scelto recentemente dal Santo Padre Francesco nella Bolla d’indizione del Giubileo della misericordia.

Ciò che più colpisce non è tanto tale coincidenza, quanto piuttosto la posizione di rottura del Barbieri nei confronti della sacra eloquenza del suo tempo. Personaggio dal grande carisma, dai molteplici interessi, educato alla cultura e alla fede nei seminari di Treviso e di Padova, e all’arte dal Cesarotti, l’abate bassanese si proponeva anzitutto di staccarsi dall’oratoria sacra contemporanea, rozza e grossolana soprattutto nelle campagne, e ampollosa e goffa sui pulpiti delle città, e da quei «battitori liberi» che, anziché attenersi alle esperienze della vita e del cuore, traevano la forza per le loro orazioni dai «fondachi altrui», dai libri, dalle Poliantee, dai Repertori ecc… trasformando così gli insegnamenti del Vangelo in palestra accademica. Il Barbieri, pur avendo un alto grado di erudizione corroborato da robusti studi giovanili, avvertiva il bisogno di distanziarsi da coloro che, volendo apparire dotti e valenti teologi, facevano sfoggio del loro sapere praticando un’oratoria rivolta «non al cuore ch’è di tutti, ma al solo intelletto, ch’è di pochi». Non solo, anche quegli oratori, le cui predicazioni erano accompagnate da una mimica concitata e teatrale, erano oggetto di biasimo da parte del Barbieri che si opponeva apertamente alla sentenziosa condanna contro la corruzione del secolo a causa di cui molti invocavano la spietata ira divina a discapito della vera strada da perseguire, quella della virtù. Partendo dalla convinzione che le minacce di orribili strazi generino nell’animo degli ascoltatori più spavento che ammirazione e salutare edificazione, l’abate bassanese scriveva:

Lo strepitose minacce assembrano il più delle volte a quegli acquazzoni di estate, che percuotono il suolo, nol bagnano; l’unzione è, per l’opposto, come pioggia di primavera, che scioglie l’acre durezza del suolo, penetra nelle radici delle piante e dolcemente le promuove a mettere germogli.

Non potevano mancare nel bersaglio del Barbieri anche coloro che rivendicavano di «parlare all’apostolica», credendo che la parola di Dio non necessitasse di alcun supporto e che fosse efficace su qualunque labbro. L’abate rispondeva loro osservando che gli Apostoli godevano dell’ispirazione diretta dello Spirito Santo ̵ e già per questo elemento il paragone non potrebbe sussistere ̵ e che, d’altronde, nelle Epistole apostoliche s’incontrano passi di altissima eloquenza che non possono essere posti sullo stesso livello del «parlare ad idioti e rustici campagnuoli o a colti ed istruiti ascoltatori». A tal proposito, richiamandosi anche a certi autorevoli insegnamenti del papa Clemente XIV, il Barbieri chiudeva la sua riflessione affermando:

La maniera più utile di predicare è di prendere per iscopo la Morale, piuttosto che i Misteri. Questi quadri di ombre e di lampeggiamenti, basta farli vedere di quando in quando ai fedeli: ma i Misteri evangelici, essendo cosa di pratica e dovendo passare nelle nostre azioni, anzi esserne la sostanza, è necessario porli sott’occhio ogni giorno.

Nonostante la consapevolezza di andare incontro ad aspre critiche da parte della Chiesa conservatrice, il Barbieri sentiva l’esigenza di staccarsi dai falsi metodi delle scuole retoriche che avviavano ad un’eloquenza fatta di parole vane e non di contenuti. Gli inutili sfoggi di erudizione, i giochi di retorica fini a sé stessi e i discorsi ben confezionati ma vuoti nella sostanza non potevano essere accettati da chi, come lui, incitava a uscire dai recinti grammaticali predefiniti per permettere che l’orazione acquisisse forza non dalle parole con cui veniva pronunciata, ma dal contenuto che ne costituiva l’essenza. Aspro, dunque, il giudizio del Barbieri sulle scuole di retorica che dovevano avviare i giovani alla carriera del pulpito:

[Tali istituti] abituano taluni a quella futile pompa di descrizioni e di amplificazioni, nelle quali sogliono piacersi gli ingegni più fantastici, i quali credendo che l’eloquenza dimori nel vario fogliame delle parole, non pongono cura al frutto delle cose: lambiscono la scorza e non toccano al midollo dei contenuti; la tendenza di molti di togliere dalle poliantee e dai repertori le proposizioni belle e ammanite, per cui si fanno copiatori di cose altrui; la secchezza di alcuni vaghi di comparir valenti nella teologia e nella controversia; la smania d’altri di tramutare con sistemi e artifizi la cattedra santa in accademica palestra; la freddezza dei più, che parlando all’intelletto tacciono al cuore; l’esagerazione di molti che mal conoscendo l’indole dei tempi vogliono essere sempre avversari, giudici, non mai amici e fratelli; la trascuratezza di altri che, predicando la parola divina, sdegnano ogni studio, ogni cura, quasi fosse il medesimo parlare all’idiota, e parlare alle culte popolazioni; parlare in un secolo d’ignoranza, o di dottrina; finalmente, il vezzo di alcuni d’intarsiare il discorso di testi latini, del paro inutili a cui si conosce di quella lingua e a chi l’ignora.

Sono queste le ragioni che il Barbieri individua come impedimenti al raggiungimento del «midollo dei contenuti», unico vero fine della sacra eloquenza. Come era successo per i mali che affiggevano la lingua italiana, così anche per l’ars oratoria vengono proposti alcuni rimedi che andavano a toccare un tasto dolente, ancor più dolente soprattutto se a toccarlo era un ecclesiastico. Il Barbieri si scaglia senza pietà contro i vescovi che praticavano l’eloquenza con poco fervore, come se il loro animo si dissociasse dalle parole che pronunciavano. Di contro li invitava a seguire l’esempio di vescovi che avevano conferito veridicità alle orazioni con il loro temperamento, facendosi portatori di un messaggio che vive in primis nell’animo di chi lo trasmette. La grandezza dei grandi vescovi della storia era data dal sentimento che li animava e che la folla era in grado di cogliere e apprezzare come nel caso del pathos di sant’ Ignazio, la tenerezza di sant’Ambrogio, la mitezza del vescovo e martire Cipriano, la semplicità di san Basilio, la carità di san Cirillo, e la spiritualità di sant’Agostino.

La poca passione dei vescovi di primo Ottocento non era l’unica pecca delle loro predicazioni, ma ad essa il Barbieri aggiungeva il debole ancoraggio alle sacre scritture, il cui messaggio principale veniva spesso oscurato da un sovrappiù di orpelli. I vescovi vengono così richiamati ad essere rappresentanti del divino in terra facendo uscire dalle loro labbra solo la parola di Dio e onorando in tal modo l’abito che indossano. Questa è l’unica via che può permettere ai «capitani della cristiana milizia di riportare allora quelle vittorie, le quali non sono men dolci ai vinti che ai vincitori». Riferendosi poi ai giovani oratori il Barbieri si scaglia contro il panegirico definito come il loro «primo tracollo» in quanto troppo pieno di descrizioni, di formule retoriche preimpostate, di apostrofi e di licenze peggio che poetiche, sempre più ampollose quanto più sconosciuto e municipale sia il santo da elogiare. Per l’abate l’elogio non doveva fungere da mera retorica ma destare l’ammirazione del pubblico nei confronti del personaggio lodato e desiderio di imitazione.

Il Barbieri era attentissimo alla ricezione da parte delle folle e sapeva che, per quel che riguardava il contenuto, bisognava prima di tutto tener presente le credenze del posto che mantengono viva nel popolo la devozione, e poi concentrarsi non tanto sulle opere del santo quanto sulla vita che da sola rappresenta l’esempio massimo di virtù evangelica incarnata. Come potrebbero gli uomini accorgersi di Dio? Il Barbieri avrebbe risposto di guardare la vita di coloro che si dicono credenti, perché solo gli esempi di fede vissuta possono rappresentare la direzione per il cielo e finché non ne sentiranno la responsabilità continueranno ad esserne l’ostacolo, il motivo per cui la gente non crede. È come se Dio avesse consegnato la sua credibilità ai suoi seguaci rendendoli sale e luce per il mondo. La portata innovativa di questo messaggio è sorprendente per un’epoca in cui la fede era ancora strenuamente ancorata alla tradizione.

Come detto in precedenza, l’abate bassanese si teneva anche ben lontano dall’esaltare in modo esasperato le punizioni corporali che i santi si infliggevano perché riteneva che la natura dell’uomo doveva essere corretta, non disfatta, la sua carne mortificata, non distrutta.

Passando dalla teoria alla pratica, ignoriamo quali siano stati i frutti delle Orazioni quaresimali, cioè se le predicazioni tanto apprezzate del Barbieri abbiano realmente condotto ad un ritorno di fede in un secolo in cui, come dice Ignazio Cantù, la fede cattolica, seppur non rigettata, «giace in quell’indegno oblio ed in quell’indifferenza, che fredda nei suoi vizi, non può destarsi all’entusiasmo d’una conversione». D’altro canto, però, non c’è letterato che, menzionando il Barbieri oratore, non gli riconosca la capacità di suscitare l’interesse del suo auditorio e di molti giovani che, sebbene digiuni di dottrina cattolica, si sorprendevano di trovare tanto diletto e forza nelle parole dell’abate.

Dott. ssa Giulia Carpino

Laureata all’Università di Siena

con una tesi sull’abate Barbieri